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Salva Casa:  La rigenerazione urbana non nasce da nuovi vincoli e nuove tasse

Il “salva casa” ennesimo freno mascherato da svolta. Se vogliamo un’Italia capace di rigenerarsi e attrarre investimenti, occorre rompere con fiscalità punitiva e pianificazione autoritaria.

Poche misure legislative hanno inciso così profondamente sull’economia di un Paese senza che i cittadini ne cogliessero la reale portata come il Town and Country Planning Act del 1947. Friedrich A. von Hayek, analizzandolo con straordinaria lucidità (in “L’economia dell’imposta sulla variazione della destinazione d’uso”, apparso sul Financial Times il 26, 27 e 28 aprile 1949), ne aveva denunciato la pericolosità già agli albori della sua emanazione: dietro la promessa di un uso razionale del territorio si celava un meccanismo capace di paralizzare lo sviluppo industriale, scoraggiare ogni innovazione e soffocare il progresso economico.

La legge britannica istituiva infatti un monopolio pubblico sulla trasformazione urbanistica: ogni cambiamento di destinazione d’uso doveva essere autorizzato e tassato, non a fronte di un guadagno reale, ma anticipatamente, come se il semplice progetto fosse già fonte di ricchezza da confiscare.

Lo scienziato austriaco aveva avvertito che tale logica avrebbe avuto effetti disastrosi. Il rischio e il capitale sarebbero rimasti integralmente in capo agli imprenditori, mentre lo Stato avrebbe riscosso entrate certe a fronte di vantaggi solo ipotetici. Il risultato inevitabile sarebbe stato la paralisi: ogni nuova iniziativa avrebbe dovuto fronteggiare un doppio ostacolo, il permesso discrezionale e il tributo preventivo.

L’Italia persevera nell’errore

Oggi, a distanza di oltre settant’anni, l’Italia ripropone esattamente quello schema fallimentare. Il dibattito parlamentare degli ultimi mesi sulla rigenerazione urbana, sulla perequazione urbanistica e sulla tassazione delle plusvalenze immobiliari reintroduce, sotto nuove etichette, lo stesso principio che Hayek aveva così efficacemente smascherato.

Invece di incentivare le trasformazioni spontanee, si moltiplicano vincoli, si progettano nuovi oneri di urbanizzazione parametrati non più ai costi reali delle opere pubbliche ma ai presunti incrementi di valore, si ipotizza addirittura che i Comuni possano imporre “listini prezzi” per la monetizzazione dei diritti edificatori e per ogni cambio d’uso. Per non parlare delle ricorrenti proposte di riforma del catasto, che tornano ciclicamente nell’agenda politica, spesso come pretesto per un ulteriore aumento del carico fiscale sugli immobili.

Esempi concreti

Gli esempi concreti non mancano. A Milano, il Regolamento Edilizio adottato nel 2014 e aggiornato successivamente, ha imposto criteri che, pur promuovendo la riqualificazione, hanno introdotto costi notevoli per la trasformazione di aree dismesse in residenze o uffici, rendendo molti interventi economicamente onerosi. A Roma, il tentativo di rigenerare i grandi vuoti urbani delle periferie è stato bloccato per anni da richieste sproporzionate di opere pubbliche a carico dei privati, tanto che è stato necessario stanziare nel 2023 circa 100 milioni di euro pubblici per sbloccare gli interventi. A Genova, la trasformazione degli immobili ex industriali ha dovuto confrontarsi con oneri di urbanizzazione aggiornati al 2024 che, seppur ridotti rispetto al passato, restano tali da rendere molte operazioni di riconversione antieconomiche.

Barriere politiche

Ovunque, il meccanismo è sempre lo stesso: chi vuole migliorare, chi vuole investire, chi vuole adattarsi ai nuovi bisogni viene caricato di costi artificiali, non legati al reale interesse pubblico ma alla fame di entrate delle amministrazioni. L’autorizzazione diventa un lasciapassare da pagare caro, il progetto di rigenerazione una fonte di incassi immediati per enti pubblici spesso incapaci di garantire in cambio infrastrutture o servizi.

Hayek ci aveva messo in guardia: trasformare ogni adattamento industriale o urbano in un percorso a ostacoli significa non solo frenare lo sviluppo, ma anche falsare le informazioni su cui si basano le decisioni economiche. I costi artificiali imposti dai regolamenti e dalle tasse non corrispondono ai reali costi sociali: sono barriere create per esigenze politiche, non per necessità economiche. Così, il mercato viene deformato, l’efficienza si perde, e la vitalità economica si spegne lentamente.

Questa situazione è ancora più grave se si considera che il nostro Paese, a differenza della Gran Bretagna del Dopoguerra, non sta affrontando una fase di ricostruzione, ma una fase di declino demografico e di desertificazione produttiva. Sarebbe dunque urgente liberare le energie imprenditoriali, abbattere i vincoli, semplificare i cambiamenti di destinazione d’uso, incentivare chi vuole investire in nuove attività, nuove abitazioni, nuovi servizi. Eppure, si sta facendo esattamente l’opposto: ogni trasformazione diventa oggetto di controllo, di trattativa, di imposizione fiscale.

Il “salva casa”

Anche la recente legge n. 56/2025, conosciuta come “salva casa”, conferma detta tendenza. Più che facilitare il recupero e l’adattamento degli immobili esistenti, rischia di irrigidire ulteriormente il quadro, introducendo nuovi parametri normativi e rimettendo nelle mani delle amministrazioni locali ampia discrezionalità nella definizione delle condizioni per il rilascio delle autorizzazioni. Un’impostazione che sembra ignorare la lezione hayekiana e ripropone la centralizzazione e il dirigismo che già tanti danni hanno prodotto.

Come aveva sin da subito ammonito l’autorevole studioso liberale, “la sola regola che potrebbe produrre un miglioramento dell’efficienza industriale è quella secondo cui le imposte sulla variazione della destinazione d’uso non dovrebbero proprio esistere“. Una verità che da noi si tende sistematicamente a dimenticare.

Se vogliamo davvero un’Italia capace di rigenerarsi, di attrarre investimenti, di creare nuova occupazione, dobbiamo avere il coraggio di rompere con la logica perversa della fiscalità immobiliare punitiva e della pianificazione autoritaria. La vera rigenerazione urbana non nasce da nuovi vincoli, nuove tasse, nuovi permessi.

Nasce dalla libertà di trasformare il territorio in modo spontaneo, secondo le esigenze di chi investe, produce, vive. Solo restituendo ai cittadini e alle imprese la piena libertà di agire, senza costringerli a negoziare ogni passo con la burocrazia, potremo rimettere in moto la crescita, l’innovazione e la speranza di un futuro migliore.

di Sandro Scoppa (Atlantico)